Povertà ignorate: le madri sole
“Il 3 dicembre 2002 ho perso mio marito, restando da sola in attesa di nostra figlia. In quel momento ero incinta di pochi mesi e non capivo assolutamente che cosa significasse essere un genitore solo: dovevo sopravvivere a un dolore fortissimo e già in questo il supporto era minimo”. Poi è arrivata Emanuela, “così simile a tutti e due e così inconsapevole tanto del dolore vissuto prima della sua nascita quanto dell’amore che l’aveva resa possibile. Sono stati mesi difficilissimi, ma ero più forte perché potevo stringerla fra le braccia e capivo che avrei dovuto cominciare a vedermi come mamma e non come vedova, come donna che sarebbe stata capace nuovamente di sorridere”.
È iniziata così la seconda vita di Rossella Catanesi: una nuova vita da mamma sola. Fino alla sua scomparsa prematura nell’agosto scorso, un’esistenza felice, forte del sostegno della famiglia d’origine e pronta a mettere a disposizione degli altri la propria esperienza attraverso “Genitori soli” (www.genitorisoli.it), l’associazione fondata nel 2004 insieme alla sorella Ines – che oggi continua la sua battaglia – nata con l’obiettivo di aiutare le famiglie monoparentali a districarsi tra lacune legislative e pubblico disinteresse. Perché essere madri sole può voler dire molte cose: un compagno che non c’è più o che non c’è mai stato, un matrimonio finito in divorzio.Sulla quotidianità di tutte, però, grava un incubo comune: la povertà, se va bene di tempo, se va male di tempo e di risorse. Lo dice l’Istat nell’approfondimento “Profili e organizzazione dei tempi di vita delle madri sole in Italia”, pubblicato nel 2005: tra le madri sole con figli minori a carico, l’incidenza di povertà è pari al 12,4%, quasi due punti in più rispetto alla media nazionale. Un dato allarmante, perché relativo a una categoria sociale in crescita. Se nel biennio 1993-1994 i nuclei monogenitore erano 1 milione 775 mila, nel 2003 il conteggio era già salito a 2 milioni. Certo, nel mucchio si trova anche qualche padre, ma l’83,9% dei genitori soli sono donne: separate o divorziate nel 39,5% dei casi, vedove nel 52,8% e nubili nel 7,7%.
L’identikit della madre sola descrive una donna meno istruita e più occupata, meno soddisfatta della propria vita quotidiana, soprattutto al Sud, ma detentrice di un piccolo vantaggio: può permettersi di dedicare al lavoro familiare “solo” 5 ore e 12 minuti della sua giornata, a fronte delle 6 ore e 44 minuti richiesti alle madri in coppia con figli. Nella famiglia italiana, insomma, il coniuge è ancora un peso e il tempo della donna si avvantaggia dell’assenza del marito. Meglio sole che male accompagnate, verrebbe da dire. Ma l’ironia, in questo caso, è davvero una magra consolazione.
In un Paese di santi, poeti e inguaribili mammoni, ci si aspetterebbe che negli anni la retorica pro-familista bipartisan sia stata accompagnata da adeguate misure a sostegno della maternità. E invece aspetta e spera.
Che siano sposate, vedove o nubili, lavoratrici o disoccupate, l’Italia riserva alle madri un unico assegno di 1.440 euro indipendentemente dal reddito, da richiedere al comune di residenza entro i primi 6 mesi di vita del bambino. Qualcosa è lasciato alla discrezione dei poteri locali, che nella migliore delle ipotesi intervengono con un contributo di circa 300 euro. Poco importa, poi, se per mantenere madre e figlio siano necessari almeno 1.000 euro al mese: chi ha voluto la bicicletta, si faccia animo e pedali.
Manco a dirlo, in gran parte Paesi europei la situazione è decisamente migliore. Come in Olanda, dove lo Stato aiuta le madri con un assegno mensile che oscilla tra gli 800 e i 1.000 euro al mese, il pagamento di metà delle spese scolastiche e di tutte le spese mediche del bambino fino al compimento della maggiore età. O in Inghilterra, patria del Welfare State: indipendentemente dalla composizione della famiglia e dal reddito, ogni madre percepisce 95 euro al mese per il primo figlio e 13,50 euro per ciascuno dei successivi. Alle single mothers che lavorano sono garantiti un contributo mensile calcolato in base allo stipendio e alle spese annuali e il pagamento delle spese per il bambino, dalla scuola ai vestiti.
Se la donna non lavora, il governo si fa carico anche dell’affitto della casa. Dalla prospettiva italiana, praticamente un miraggio. Che diventa un sogno ad occhi aperti quando si guarda alla Germania, dove ogni famiglia percepisce un contributo base di 154 euro al mese per il primo figlio fino alla maggiore età o fino alla fine degli studi. Per i primi due anni successivi alla nascita del bambino, inoltre, la madre riceve dallo Stato 300 euro mensili perché impossibilitata ad andare al lavoro. Un trattamento a parte è riservato alle ragazze madri: se vivono ancora presso il domicilio dei genitori, possono contare su ulteriori 700 euro al mese di mantenimento, che si trasformano in un appartamento con tanto di arredamento essenziale nel caso in cui desiderino rendersi autonome andando a vivere per conto proprio. Senza dimenticare il contributo alle gestanti: 54 euro al mese a partire dalla dodicesima settimana.
Il nuovo paradiso delle famiglie, però, si trova all’ombra della Tour Eiffel: alle mamans di Francia è riservato un contributo mensile di 162 euro, che può trasformarsi in un vero stipendio di 700 euro nei casi di maggiore disagio. “Un investimento per il futuro e non un costo”, è stato definito dal governo di Parigi. E infatti la République è attualmente il primo Paese in Europa per natalità a pari merito con l’Irlanda.Un modello virtuoso e di provato successo appena oltre la soglia di casa nostra, insomma.
Ci si chiede quando anche da queste parti qualcuno si degnerà finalmente di prenderne esempio.
Lunedì 08 Novembre 2010 15:43 – di Gabriella Poggioli